Postille a "Uno Studio in Rosa"
di Fabio Camilletti
Sono passati ormai diversi anni da quando ho letto
per la prima volta Il Nome della Rosa, e il mio interesse per questo libro è
sempre andato in crescendo: ho accolto quindi con piacere l'articolo di Marco Zatterin
sulle connessioni tra la storia di Guglielmo da Baskerville e la figura di Sherlock
Holmes. In effetti, l'opera di Adso da Melk — mediata, com'è noto, dalla
selezione di Mabillon, dalla traduzione francese dell'abate Vallet e da quella
italiana di Umberto Eco (e che quindi si presta, per molteplici versi, a quei giochi
interpretativi e a quelle seduzioni intellettuali che il suo ultimo traduttore ha definito
propri della "opera aperta") — può ormai, a mio avviso, essere ascritta a
quell'Olimpo dei libri immortali che — al pari del nostro Canone o dei racconti
di H. P. Lovecraft — hanno visto la loro carriera editoriale accompagnata
praticamente da subito da una fitta serie di marginalia, apocrifi, saggi critici ed
eruditi: una 'contaminazione' fra i due ambiti di critica, quella holmesiana e
quella echiana, può quindi, secondo la mia opinione, rivelarsi estremamente salutare per
quanto attiene al nostro campo di studi che deve — per quanto è possibile —
trarre linfa vitale da ogni ambito con cui possa entrare in contatto.
Scopo di questo articolo non sarà — ed è bene puntualizzarlo subito — minare
la credibilità di un contributo interessante — anche se, sfortunatamente, viziato da
una scarsa attendibilità per quel che riguarda le fonti — come quello portato da
Zatterin nel già citato numero speciale dello Strand: si vuole piuttosto, sulla
base di quello, sviluppare una serie di riflessioni e puntualizzazioni riguardo al ruolo
— indubbiamente centrale, come del resto si è sempre sospettato — che un testo
come quello del monaco di Melk viene ad assumere in quell'universo di Sherlock Holmes
su cui noi tutti ci troviamo a lavorare.
Quanto ci si può affidare al testo del professor Liddelraft? A parte l'oramai
definitivamente appurata irreperibilità del personaggio in questione — che fa
pensare a una scoperta, da parte di Zatterin, non meno illogica ed eccezionale di quella
compiuta qualche decennio fa da Bioy Casares, amico e collaboratore di Borges, sulle
pagine della sua copia dell'Anglo-American Cyclopaedia — resta il fatto
che generalmente, nel campo dei nostri studi, l'attendibilità di 'esperti'
e, in generale, di studiosi provenienti dal Nord Europa deve — per qualche
inspiegabile motivo — essere presa con ogni precauzione. Non sono in molti a
ricordare lo scandalo e lo sdegno che suscitarono — nei fortunatamente pochi teologi
che ne vennero in contatto — le tesi sulla natura del Messia di tale professor Nils
Runeberg; e se è a una copia stampata ad Anversa che dobbiamo molto delle più recenti
edizioni critiche dell'opera chiamata Necronomicon, pure è vero che la
critica, la teologia e la filosofia speculativa delle terre del Nord hanno molto spesso
prodotto più danno che giovamento, più sofisma che spiegazione razionale, più caos che
unità interpretativa. Liddelraft non sfugge a questa regola: dà informazioni, formula
ipotesi, sforna verità rivelate; ma per lo più non riporta i passaggi logici che
l'hanno portato a formularle, sembra spesso perdere di vista il problema nel suo
insieme, e il risultato è una tesi per molti versi avvincente, ma che nella maggior parte
dei casi risulta decisamente poco condivisibile.
E' impossibile, razionalmente, negare una connessione tra Il Nome della Rosa e
la figura di Sherlock Holmes. Come fa notare Liddelraft, la somiglianza fisica tra Holmes
e Guglielmo da Baskerville è innegabile; allo stesso modo, il nome
'Baskerville' rimanda a quello che è divenuto — e giustamente — uno
dei casi più celebri tra quelli narrati da Watson. Guglielmo fa 'deduzioni' con
metodo squisitamente holmesiano; ha un assistente, Adso — che è poi il narratore
— che ha un nome molto simile a quello dell'assistente (e narratore
anch'egli!) del nostro investigatore di Baker Street. Ma ciò che non regge, nel
discorso di Liddelraft, è la conclusione: Il Nome della Rosa sarebbe opera di John
Watson, scoperta da Eco, che avrebbe evitato di citare il dottore nelle fonti. Perché
impossibile? Per molti motivi. Anzitutto, l'opera è ambientata nel XIV secolo:
un'epoca che il narratore mostra di conoscere assai bene, il che non sarebbe un
problema se ammettessimo che il narratore è un contemporaneo come Adso, ma che ci impone
di postulare un medievista, anche solo dilettante, se per qualche inspiegabile ragione la
volessimo scritta da un autore a noi vicino nel tempo. E' superfluo far notare come
Watson non corrisponda affatto a questo tipo di autore ideale (per usare una
terminologia di derivazione echiana); superfluo chiedersi come un medico londinese del XIX
secolo potesse conoscere a fondo il dibattito sull'arte di Bernardo di Clairvaux, dei
cluniacensi o dell'abate Suger come dimostra di conoscerlo l'autore del libro, o
essere a conoscenza di una storia così spinosa come quella dei fraticelli di Dolcino, che
fino al Mistero Buffo di Dario Fo era nota solo agli storici dei movimenti
ereticali. E il latino scolastico di Watson si spingeva forse alla conoscenza — e
alla citazione puntuale — del Contemptus Mundi di Bernardo Morliacense, o a
quel mirabile tessuto di citazioni patristiche che è la descrizione di Adso del suo primo
e unico rapporto sessuale? Non credo. C'era in effetti a Baker Street qualcuno che
poteva avere queste conoscenze: Holmes stesso. Lo sappiamo grande medievista, sicuramente
dagli interessi così disparati da potervi includere anche conoscenze su argomenti
marginali come i contenuti della predicazione di Gherardo Segalelli o la procedura
inquisitoriale di Bernardo Gui (che, tra l'altro, aveva per Holmes anche un interesse
— potremmo dire — squisitamente professionale). Ma perché Holmes avrebbe dovuto
scrivere un romanzo come Il Nome della Rosa? Non ce n'era alcun motivo, e il
suo temperamento scientifico sarebbe stato sicuramente meglio indirizzato, più che alla
narrativa, alla stesura di saggi e monografie come quella — attestata dal Canone
— sui mottetti polifonici di Lasso. Ma dov'è, allora, la connessione?
L'abate Vallet è citato da Eco anche in un'altra opera, come autore di un
trattato sull'estetica negli scritti di San Tommaso d'Aquino. Si tratta di un
erudito francese dell''800, affine, per molti versi, a quell'Abate di
Bucquoy che era stato fondamentale nelle ricerche storiche compiute da un altro grande
personaggio dell'epoca, il poeta francese Gérard de Nerval [pseud. di Gérard
Labrunie, Parigi 1808 — 1855]. Non a caso, anche Nerval è stato nel mirino di
Umberto Eco, che lo ha citato ampiamente nelle sue Norton Lectures e ha curato, nel
'99, una traduzione del suo romanzo Sylvie. E può essere, per molti versi,
proprio la figura di Gérard de Nerval la connessione che cercavamo.
Lo sfortunato poeta francese — morto pazzo, come i molti cultori della sua opera
sanno bene, impiccato con un cilindro in testa a un'inferriata dell'ormai
scomparsa rue de la Vieille-Lanterne a Parigi — era, nei momenti di lucidità che la
sua follia gli concedeva, un infaticabile bibliofilo. I contemporanei lo ricordano
circondato da libri stranissimi e introvabili: opere di magia, saggi sulle antiche
religioni e i culti misterici, libri di storia locale francese (specialmente della regione
del Valois, di cui era originario) pubblicati in pochissime copie da sconosciuti ed
eruditi sacerdoti di campagna, trattati medievali sulle pietre preziose e le erbe magiche,
resoconti di viaggio di cronisti della moyen-âge che gli avrebbero consentito la
stesura — purtroppo incompiuta — della sua opera più ambiziosa, il Voyage en
Orient. Il romanzo Angelique si apre con una ricerca bibliografica: quella
degli Avvenimenti dei più singolari, ovverosia storia del signor abate conte di
Bucquoy, che il protagonista rifiuta di acquistare — per l'eccessivo prezzo
— da un libraio di Francoforte, e che poi ricerca in varie biblioteche francesi
almeno inizialmente senza successo. Si noterà l'assonanza con quella prefazione di
Umberto Eco al Nome della Rosa di cui parla anche Liddelraft nel suo articolo:
anche lì un libro perduto che il protagonista ha avuto tra le mani, poi sottrattogli, poi
ricercato, anche qui senza successo. E' una sorte comune a studiosi del nostro campo:
anche il professor Liddelraft è scomparso senza lasciare traccia, e allo stesso modo la
copia di Bioy Casares dell'Anglo-American Cyclopaedia, con la sua voce sul
paese di Uqbar, sembra costituire un unicum. Anch'io ho sperimentato
personalmente questo tipo di perdita, per un testo autografo ed inedito del dottor Watson
che ho avuto tra le mani e che mi è stato malauguratamente rubato lasciandomi solo —
come è accaduto a Eco — una traduzione realizzata 'di getto' sul mio
computer. Nulla si può dire se non che è un accidente con cui si deve spesso fare i
conti.
Ad ogni modo, si era rimasti a Nerval: e lo si era lasciato come bibliofilo infaticabile,
ricercatore di qualsiasi stranezza vergata su carta gli capitasse per le mani. Non è
difficile, a questo punto, formulare un'ipotesi. Non c'è nessuna ragione per
cui il testo dell'abate Vallet non possa essere passato per le mani di Nerval: anzi,
se in tutto il XIX secolo, in Francia, c'era qualcuno che poteva aver esaminato la
storia di Adso trascritta dall'abate, quest'uomo era Gérard Labrunie con le sue
instancabili ricerche e la sua passione per le biblioteche. Il libro in questione era la
classica opera che avrebbe attirato la sua attenzione: cultore del Medioevo, eresiologo,
appassionato di stranezze d'ogni tipo, quella versione poetica di Gustave Moreau non
avrebbe certo mancato di dare una scorta al nostro volume. E questo fatto non può essere
certo sfuggito all'attenzione di Umberto Eco: nervaliano da anni, il professore
alessandrino non può non aver pensato a un possibile coinvolgimento del bibliofilo Nerval
nelle vicissitudini del libro. E ne è una prova l'impianto saldamente nervaliano
della sua prefazione: che riecheggia, come si è visto, le prime pagine di Angelique.
Ma in che modo possiamo arrivare a Holmes?
C'è una domanda che riecheggia ormai da molto tempo, in maniera più o meno
sotterranea, nell'opera critica degli holmesiani: perché Holmes è diventato
investigatore? E' una domanda a cui il Canone non dà risposta; ma ce n'è
un'altra, a mio avviso, altrettanto importante, nonché, secondo la mia opinione, a
questa strettamente correlata. Perché Holmes è un appassionato dell'epoca
medievale? Non c'è, in effetti, nessuna ragione plausibile. Un uomo noto per i
suoi interessi rigorosamente legati alla propria professione, teorizzatore della mente
umana come un ambiente in cui non devono rientrare se non cognizioni utili" che si
ritrova a leggere trattati e cronache medievali, in apparenza senza nessuna correlazione
con il mestiere di consulting detective. Qualcosa non quadra.
L'interesse per il Medioevo nasce in epoca romantica sotto la spinta di quella
tendenza che gli storici dell'arte e della letteratura definiscono col termine di storicismo.
In sintesi, a partire dall'opera di Winckelmann, teorico e studioso dell'antico
di provenienza tedesca, si sviluppa una tendenza critico/artistica che alla concezione
astratta della "antichità" mutuata dall'Umanesimo e dal Rinascimento
sostituisce una prospettiva storica maggiormente scientifica e accurata, fondata sulle
scoperte compiute dalla nuova scienza, l'archeologia. L'età neoclassica si
fonda così su una visione dell'antico fortemente caratterizzata in senso storico:
gli ambienti dei quadri a tema classico si fanno più accurati e fedeli (è noto come
Jacques-Louis David riproducesse, nel suo La morte di Socrate, una kylix [coppa]
prendendo a modello recenti ritrovamenti archeologici), mentre nascono come generi la
moderna storiografia e l'attuale critica d'arte. Lo storicismo allarga poi il
suo campo di prospettiva ad altre epoche e ambienti: e il Medioevo, fondamentale per la
sensibilità romantica nazionalista, è uno dei temi prediletti, raffigurato col massimo
di minuzia storica in quadri come Pietro l'Eremita di Hayez. In Francia, uno
dei maggiori pittori di tendenza storicista è Horace Vernet [1789 — 1863]: ben noto
agli holmesiani come parente della nonna del detective, Vernet vive ed opera in quegli
anni convulsi e fondamentali del conflitto tra storicismo e simbolismo, gli anni di Moreau
[1826 — 1898], dell'arte pompier, di Gérard de Nerval. Benchè
prevalentemente dominati da soggetti di carattere militare, desunti dalla storia più
recente (per lo più episodi delle campagne napoleoniche), i quadri di Vernet restano
nell'ambito dello storicismo nella misura in cui — secondo un tratto
caratteristico della mentalità francese rivoluzionaria e post-rivoluzionaria — si
assume l'idea che anche la cronaca può farsi storia, e deve essere raffigurata con
la stessa minuzia dei quadri a soggetto classico o medievale per conservare tutta la
propria carica pedagogica e documentativa.
Fin da una prima lettura si nota la forte icasticità di un libro come Il Nome della
Rosa. La descrizione del portale, su tutte, sembra essere uscita dalla penna di uno di
quei critici dei Salons parigini che descrivevano, a beneficio di chi non poteva
vedere gli originali, i quadri più importanti esposti biennalmente al Louvre. E,
com'è noto, i pittori di tendenza storicista erano avidi di simili descrizioni
'd'epoca', che avrebbero consentito loro — illustrandole — di
raggiungere il loro obbiettivo principale: la fedeltà storica. Non ci vuol molto a
immaginare Vernet, in quello stesso ambiente parigino in cui Nerval spopolava (anche se le
preferenze del poeta andavano al simbolismo), venire a conoscenza di questa cronaca del
XIV secolo piena zeppa di descrizioni come quella — giustamente famosa — del
portale dell'abbazia: e, magari, venirne in possesso.
Anche se Vernet non realizzò mai un quadro tratto dal libro di Adso da Melk, non è
difficile capire il perché. Prescindendo dal fatto che i soggetti a carattere medievale
non erano in ogni caso il suo genere, l'opera che aveva in mano era — comunque
— la traduzione dell'originale realizzata dall'abate Vallet: un
rimaneggiamento, insomma, e passato oltretutto per le mani di un erudito come J. Mabillon
che era vissuto in un secolo come il '600 visto dagli artisti e dalla critica del
secolo scorso come 'peste del gusto' ed epoca del 'garbuglio'
storico/letterario per eccellenza. Utilizzando quell'edizione, sarebbe venuta meno
quella fedeltà storica che era sentita dagli storicisti come un presupposto essenziale
alla creazione artistica. Un Gustave Moreau, probabilmente, pittore eclettico e
'irregolare', se ne sarebbe preoccupato meno: e avremmo, ora, un portale
dell'abbazia senza nome dipinto nei colori carnosi e innaturali del maestro, che
certo sarebbe piaciuto a Des Esseintes. Ma in questo caso il libro non sarebbe mai
arrivato nelle mani di Holmes.
Non è difficile immaginare un Holmes bambino leggere quella strana eredità, forse un
regalo dei nonni. Un libro, scritto in francese — lingua che il detective conosceva
benissimo —, contenente una strana storia incentrata su un personaggio di indubbio
carisma. Il bambino legge, si appassiona alla vicenda: uno speculum mundi
perfettamente in linea con la mentalità medievale che gli insegna concetti quali la
giustizia, il conflitto tra l'individuo e le istituzioni, la sovversione politica, il
valore della solitudine, l'importanza di un uso corretto della mente. E, soprattutto,
una cosa: un'applicazione pratica delle teorie filosofiche del monaco inglese
Guglielmo da Ockham nel campo dell'investigazione criminale, compiuta da un
francescano britannico nel XIV secolo dell'era cristiana. Non è difficile
riconoscere nel patriottico ma libero pensatore Sherlock Holmes un'influenza delle
lezioni di Guglielmo da Baskerville al suo discepolo Adso: lezioni sulla tolleranza, sulla
molteplicità dei punti di vista possibili, sull'importanza dello spirito critico
individuale, inviti al ragionamento corretto, all'analisi delle cause di un fatto,
all'interrogarsi continuo. Spieghiamo così l'inquieta religiosità di Holmes
che Solito e Guerra hanno così ben sottolineato ne I diciassette scalini: una
religiosità che non si fonda sull'adesione ad alcuna chiesa, che non cede a facili
fideismi, che si guarda bene dal giudizio negativo a priori verso sette, gruppi ereticali,
comunità marginali; una religiosità tanto simile a quella che Guglielmo dimostra
parlando dell'immenso fiume della cristianità, o nelle sue ferventi dispute con
l'acceso e 'reazionario' Ubertino da Casale. Spieghiamo, almeno in parte,
anche quella che è stata frequentemente etichettata come la 'misoginia' di
Holmes, che è invece, come in Guglielmo, un rispetto profondo dell'altro sesso
fondato su una concezione dell'uomo come essere chiamato a diverse vocazioni, di cui
il matrimonio è solo una delle tante possibili. E soprattutto troviamo l'origine del
'metodo deduttivo': non un sistema di pensare (come si è spesso asserito)
mutuato da un ambiente astrattamente 'positivista' di cui poteva far parte Doyle
ma non necessariamente il nostro eroe, ma da una meditazione sulla filosofia medievale di
matrice occamista condotta col filtro della storia di Adso; e sviluppata poi da Holmes nei
suoi studi personali di medievistica, che comprendevano certamente uno studio accurato del
dibattito nominalista e delle sue implicazioni nell'analisi del reale.
Se, come penso, il libro dell'abate Vallet è alla base della vocazione investigativa
di Holmes, abbiamo la risposta alle due domande che ci ponevamo prima. Gli studi
medievistici di Holmes erano strettamente funzionali alla sua professione, anche se poi,
presumibilmente, si allargarono, e Holmes (come testimoniato dal Canone e dallo scritto di
Watson da me ritrovato) divenne quello che Eco ha definito un "medievista in
ibernazione", che fa del Medioevo il suo hobby, e trova requie dallo stress
quotidiano nella lettura di Petrarca o della Vita Nuova.
Quanto alla scoperta di Eco, credo di poter concordare col professor Liddelraft quando
afferma che le vicissitudini che hanno portato il libro in Cecoslovacchia sono
strettamente legate a quanto narrato in Uno Scandalo in Boemia. Rubato o regalato
da Holmes (anche se ci sarebbe da indagare sul perché avrebbe dovuto farlo), il libro
prese così la strada che lo ha portato a Praga. E questo può spingerci a una notazione
di costume, inessenziale per la nostra ricerca, ma in ogni caso interessante da fare:
Irene Adler, cantante lirica, era esattamente quella che Nerval avrebbe definito una fille
du feu; stregato dalle donne di teatro, il poeta francese vedeva La Donna
nell'attrice Jenny Colon, figura dal fascino per molti versi simile a quello
dell'unica donna che abbia mai beffato il Maestro.
Resta un punto da chiarire. Perché una descrizione così puntuale di Sherlock Holmes in
un'opera del XIV secolo? Molte risposte sono possibili. Una — e Jorge Luìs
Borges concorderebbe — è che la storia si ripete: l'uccisione di un bovaro
della Pampa per mano di suo figlio riecheggia la morte di Cesare, e un francescano inglese
del '300 anticipa anagogicamente Sherlock Holmes. Ma quest'interpretazione
— che pure, sono certo, sarebbe piaciuta al nostro investigatore medievista,
sicuramente conoscitore dei quattro sensi di lettura danteschi — potrà sembrare
troppo poco scientifica in una sede come questa. Ce n'è quindi una più probabile e
maggiormente rigorosa: che nomi e descrizioni dei personaggi derivino dalla
'riscrittura' di Umberto Eco. Il professore, oltre ad aver intuito il fatto che
probabilmente il libro era passato per le mani di Nerval, ha sicuramente compreso le forti
connessioni presenti fra la figura di Guglielmo e quella di Holmes: e nel suo tentativo
— peraltro riuscitissimo — di rendere la storia di Adso appetibile a un pubblico
contemporaneo, l'ha disseminata di citazioni, come i nomi 'Baskerville' o
quello dello stesso Adso, e descrivendo Guglielmo come Watson descrive Holmes. Del resto
— c'insegna la tradizione medievale — nomina sunt consequentia rerum:
semiologo, Eco ha voluto lasciare tracce di questa connessione attraverso i nomi, che nuda
tenemus quando — ma non è certo il caso di Holmes — la 'cosa in
sé' non esiste più.