Home >>> The Strand Magazine >>> Strand giugno 2002 >>> L'avventura della corsa...
 

L'avventura della corsa Londra - Brighton

di Luca Martinelli

"Lei sa guidare un'automobile, vero Watson?".

Lasciai cadere l'attizzatoio con il quale cercavo di ravvivare la fiamma del caminetto e mi voltai a guardare il mio amico Sherlock Holmes che, già liberatosi del cappello e della pesante mantella di tweed, stava sedendosi tranquillamente in poltrona.

"Ho preso delle lezioni da quel suo amico, Lord Ridley", risposi stentando le parole. "Temo, però, di sapermi destreggiare a malapena nei viali della sua tenuta".

"Apprezzo la modestia, ma so che se la cava abbastanza bene. Lord Ridley è entusiasta della sua facilità di apprendimento e delle sue ottime qualità di conducente. E sabato prossimo, se lo vorrà, potrà dimostrare anche al sottoscritto tutto il suo talento di guidatore".

"Volentieri, ma in che modo posso farlo?".

"Sabato lei guiderà un'auto fiammante di fabbrica e io occuperò il posto al suo fianco".

"Non mi dica - balbettai - che ha acquistato uno di quei mostri contro i quali inveisce ogni volta che ne incrociamo uno sulla strada!".

"No, non sono ancora ammattito. L'automobile sulla quale viaggeremo appartiene al Governo di Sua Maestà e noi parteciperemo, insieme a qualche altra decina di scavezzacolli, alla corsa Londra-Brighton, quella che i giornali chiamano l'Emancipation Run. Sarà senz'altro un'esperienza che compiacerà il suo esuberante spirito sportivo".

"E' davvero una miniera di sorprese, Holmes. Guarda in cagnesco l'introduzione del telefono, preferisce la carrozza alla metropolitana, esalta la comodità del treno per contrastare la diffusione di altri mezzi di trasporto più moderni e improvvisamente se ne esce fuori con questa storia che viaggeremo in automobile; anzi, correremo. È davvero incredibile!".

"Non c'è niente di incredibile - replicò Holmes accalorandosi. - Confermo tutte le critiche contro quelle carrozze rumorose e puzzolenti e che sollevano più polvere di un'orda di barbari lanciati alla carica su una spianata desertica. Ma bisogna sperimentare tutte le novità, anche le più improbabili e improponibili. Per questo motivo mi sono preso la licenza di iscriverla, in qualità di mio pilota, alla gara di sabato".

Restai un momento in silenzio, cercando di indagare un qualche segno chiarificatore sul volto magro e allungato del mio amico. Non ne ricavai nulla. Egli era, come spesso gli capitava quando qualche pensiero occupava la sua fervida mente geniale, quasi privo di espressione tranne che per lo sguardo vagamente assorto.

"Lei non me la conta giusta, Holmes - dissi sedendomi di fronte a lui. - Se vi conosco anche soltanto un poco, direi che la partecipazione alla corsa, che i giornali da giorni strombazzano come l'evento del secolo, nasconde qualcosa. E poi - aggiunsi, - il fatto che l'automobile con la quale gareggeremo sia un prestito del Governo mi puzza a dir poco di bruciato".

Gli occhi di Holmes ebbero un lampo:

"Complimenti, Watson, questa volta ha seguito alla lettera i miei metodi; non si è fatto sfuggire nemmeno un particolare".

"Direi di non aver risolto granché...", borbottai un po' imbronciato.

"Suvvia, non fate il permaloso. Se promette di accettare la sfida - disse con quel suo tono calmo e pacato mentre si accendeva la pipa, - la informerò del piccolo segreto che mi obbliga a partecipare a questo simposio di pazzi scatenati ossessionati dal mito della velocità".

"Naturalmente accetto", mi precipitai a dire.

"Bene, le cose stanno così, amico mio: tre giorni fa, mentre lei se la spassava in compagnia dei reduci della campagna afgana, ho ricevuto la visita di un'affascinante signora... Beh, sì, scusate - si affrettò a dire prevenendo le mie proteste. - Ammetto di essere stato scortese a non averla informata immediatamente. Il fatto, mio caro Watson, è che non accettai di occuparmi di quel caso. Come ben sa, le schermaglie e le liti matrimoniali non mi appassionano, e il problema che la signora mi sottopose aveva invece tutta l'aria di appartenere a quel genere di vicenda. Stamani, però, un fatto nuovo mi ha convinto a riconsiderare la mia decisione al riguardo".

"Posso chiedere di cosa si tratta?"

"Le racconterò tutto, Watson. La signora di cui le ho parlato - cominciò a spiegare dopo aver tirato alcune boccate di fumo - è la contessa Melanie Gilmoure Farjeon, la moglie del conte Adrian Lawrence Farjeon, il socio tesoriere dei Lloyd's. La contessa giunse, senza farsi annunciare, nel primo pomeriggio. Singhiozzava e non riusciva a parlare. Era davvero sconvolta e il suo viso era pallido come la cera di una candela. E' una donna giovane e di grande bellezza e non nego che sul suo volto emaciato il contrasto dei suoi occhi neri le conferisse un fascino che è raro incontrare in altri esseri del genere femminile...".

Strabuzzai gli occhi. Holmes considerava le donne esseri inferiori o, nel migliore dei casi, pericolosi e infidi, tanto che nel corso del nostro lungo sodalizio una sola donna - colei che per lui fu sempre la Donna - si era guadagnata la sua stima e, forse, anche qualche suo segreto palpito. Perciò, adesso, sentirlo parlare di bellezza e di fascino femminile era un fatto che mi sorprendeva.

"Capisco il suo stupore - intervenne Holmes sbuffando una nuvola di fumo azzurro, - ma vorrei che capisca una cosa. So riconoscere perfettamente se una donna è bella o affascinante, anche quando sembra che non me ne accorga. Ciò non toglie che reputi la cosa del tutto inutile. Le donne sono esseri pericolosi e hanno la capacità, unica nel loro genere, di distogliere la mente dell'uomo dalle capacità di speculazione e di riflessione che sono necessarie al buon vivere. Per questo le donne mi lasciano indifferente. Ma come davanti a quadro, so coglierne le qualità puramente estetiche".

"Non negherà che di solito evita di farne menzione".

"Non lo nego, ma è pur vero che di solito non ho bisogno di lasciarmi andare a tali commenti. Quando ricevo ospiti lei è sempre presente, e quando si tratta di donne lei, che in questo campo vanta un'esperienza che si estende a molte nazioni e ben tre continenti, è sempre molto sollecito ad apprezzarne il fascino e la bellezza. Ma questa volta lei era fuori casa e, spero vorrà darmene atto, se mai dovrà scrivere un resoconto su questa indagine, che si preannuncia tutt'altro che banale, avrà bisogno che gliene fornisca una descrizione".

Il ragionamento di Holmes, al solito, non faceva una piega. Logico e lineare come lo scorrere dei giorni. Abbassai lo sguardo, imbarazzato, mentre il mio amico accennava un sorriso di soddisfazione appena percettibile all'angolo destro della bocca.

"Dunque, la contessa Farjeon - riprese con voce pacata - mi disse di essere molto preoccupata perché il marito mancava da casa da quattro giorni. I coniugi Farjeon abitano in una villa ai margini di Hapstead, quasi in aperta campagna. Il marito esce ogni mattina per svolgere la sua giornata ai Lloyd's e rientra all'ora di cena. Improvvisamente, però, questo rituale si è interrotto. La contessa ha detto di essersi accertata che il marito ha continuato regolarmente a recarsi in ufficio. Così, almeno, le ha detto il telefonista della portineria. Non è però mai riuscita a parlare con il marito, che aveva ordinato che non gli fosse passata alcuna comunicazione telefonica. Le ho chiesto se non avesse ritenuto opportuno di far visita al marito durante l'orario di ufficio, ma essa mi ha riposto di non averlo fatto temendo una scenata. Il conte Farjeon, mi ha spiegato, circa il suo lavoro tiene un comportamento molto rigido: non ne parla mai fuori dall'ufficio e pretende che la moglie e gli amici non lo disturbino mentre è ai Lloyd's per alcun motivo al mondo. La vicenda, in effetti, appariva piuttosto strana, ma la contessa, pur continuando a ripetere di temere per l'incolumità del marito, non ha saputo fornire alcun motivo plausibile per avvalorare la sua tesi. Non era a conoscenza di minacce che incombessero sul conte né il marito le aveva confidato preoccupazioni particolari. E l'unico elemento significativo che ricordasse dei giorni precedenti alla scomparsa del marito era un litigio scoppiato per futili motivi. Ora, amico mio, lei può ben comprendere che non abbia trovato alcuno stimolo che mi convincesse ad occuparmi di questo caso. Oltretutto, il conte Farjeon, un quarantenne atletico e piacente, oltre che molto facoltoso, ha fama d'essere un grande conquistatore. Sul suo conto si narrano molte scappatelle, non di rado condite da particolari piccanti. Ho evitato di confidare alla contessa la mia convinzione, e cioè che il marito fosse alle prese con una relazione extraconiugale un po' più coinvolgente del solito. Ho detto di essere molto impegnato a risolvere alcuni casi molto complessi e le ho consigliato di rivolgersi a Scotland Yard, ma a quanto ne so, non ha ritenuto di dovermi dare ascolto. Poi, però...".

Holmes si aggiustò la pipa tra le labbra fissando nel vuoto. Io ravvivai il fuoco, gettai uno sguardo distratto alla posta che la signora Hudson aveva lasciato sulla mensola del caminetto e tornai a sedermi.

"E poi?", domandai.

"Il giorno successivo - rispose Holmes in tono meccanico e distante, - sfogliando i giornali, la mia attenzione fu attratta da due brevi notizie, entrambi legate alla cassaforte dei Lloyd's. La prima è che Lord Grosvenor, il duca di Westminster, ha versato una considerevole cifra alla compagnia assicurativa che, per suo conto, dovrà effettuare una transazione in America per una complessa partita di garanzie sulle attività di alcune compagnie di navigazione. La seconda, informava che una partita di diamanti acquistata dalla Corona era stata consegnata ai Lloyd's per lo svolgimento delle perizie preliminari alla stipula della polizza d'assicurazione".

"Pensa che una banda di ladri voglia impossessarsene? - domandai - Il conte Farjeon è il tesoriere dei Lloyd's, e quindi possiede la chiave e la combinazione della cassaforte, si potrebbe ipotizzare...".

"Esattamente, Watson - incalzò Holmes. - L'ho pensato anch'io e mi sono subito messo al lavoro. Purtroppo, nel nostro ragionamento ci sono grosse falle. Come sa, mio fratello Mycroft ha molte conoscenze in settori determinanti della vita di questo Paese. I Lloyd's sono uno di questi e grazie al suo interessamento il presidente mi ha autorizzato a visitarne gli uffici e scambiare alcune impressioni con un po' di persone. Ho agito in assoluta riservatezza, indossando gli abiti del capitano di marina che, dopo tanti viaggi in mezzo all'Oceano per conto di armatori più o meno importanti, ha deciso di tentare in proprio. Nel corso delle mie chiacchierate con impiegati e dirigenti ho avuto conferma che il conte Farjeon si è recato al lavoro ogni giorno. I suoi appuntamenti fuori dall'ufficio non sono risultati più numerosi o più prolungati del solito. Gli ho anche parlato direttamente, fingendo di essere interessato ad una polizza su un carico di sete e di spezie provenienti dall'Oriente. E' stato disponibile e gentile, proprio come mi era stato descritto. Alla fine, ci siamo lasciati andare anche a qualche confessione di carattere personale e il conte mi ha confidato di vivere un momento difficile con la moglie, tanto da aver deciso di interrompere, almeno per un po', la routine della convivenza. Ho verificato che il suo nome comparisse effettivamente nel registro degli ospiti dell'Hotel Four Garden, dove mi ha detto di aver affittato una camera. Non solo, all'hotel gli addetti alla portineria lo hanno descritto alla perfezione, ma hanno negato che il conte, in questi giorni, abbia mai ricevuto visite o sia mai uscito in compagnia di una donna. Anzi, rientrato dal lavoro e consumata la cena nel ristorante attiguo all'hotel, si è sempre ritirato nella sua stanza uscendone solo il mattino successivo. E questo mi suona abbastanza strano... No, no, Watson - continuò facendomi cenno di tacere con una mano, - mi lasci finire. Perché un uomo in rotta con la moglie e con la fama di donnaiolo decide di rintanarsi in una stanza d'hotel al pari di una monaca di clausura?".

"Non saprei,... magari...".

"Non c'è spiegazione plausibile, mi creda - sentenziò Holmes. - Così l'indomani sono tornato ai Lloyd's per cercare di fare un po' di luce su questo mistero".

"E cosa avete scoperto?".

"Non molto, se non che ai Lloyd's sono molto preoccupati per il tesoro che hanno in custodia. Inoltre, due giorni fa è successo un fatto piuttosto strano. Qualcuno ha rovistato nell'archivio della corrispondenza e nei registri della compagnia mettendo a soqquadro alcuni uffici...".

"Il che ci riporta all'ipotesi del furto", intervenni interrompendolo.

"E' una possibilità. Certo, escludendo un'ipotesi di spionaggio, che ho vagliato scrupolosamente senza trovare riscontri con il presidente dei Lloyd's in persona, l'unico che conosca lo scopo delle mie visite, quanto è accaduto lascerebbe pensare alla possibilità che qualcuno stia cercando di preparare un grosso colpo".

"Però la cassaforte dei Lloyd's è quanto di più sicuro e sofisticato offra il mercato", replicai.

"Certamente, Watson - sogghignò Holmes sbuffando un'ultima nuvola azzurrognola di fumo prima di spegnere la sua pipa; - ma ci sono ladri ormai capaci di qualsiasi impresa. Non avrete certo dimenticato il furto del tesoro della corona avvenuto ad Atene lo scorso anno o quello del diamante Napoleone trafugato dal palazzo imperiale di Vienna due anni prima. I ladri si sono evoluti, amico mio, e anche noi dobbiamo adeguarci. Comunque, la cassaforte è senz'altro quanto di meglio la tecnica possa offrire al giorno d'oggi. Mentre cercavo di farmi chiarire alcuni punti relativi alla mia polizza, lo ha confermato, anche se in tono abbastanza preoccupato, lo stesso conte Farjeon, il solo che ne custodisce la chiave oltre quella che è in possesso del presidente. E poi..."

"Cos'altro?", chiesi con impazienza.

"Ci sono due o tre problemi estremamente importanti e contingenti che il presidente della compagnia non sa come affrontare. Johnatan Zangwill, il direttore della tesoreria, ha presentato le sue dimissioni tre giorni fa. Una decisione repentina e inaspettata, che Zangwill ha motivato con il desiderio, raggiunti ormai i 40 anni di servizio ed essendo vedovo, di raggiungere il suo unico figlio che vive stabilmente in America. Considerati gli incidenti del giorno successivo negli uffici della compagnia, il comportamento di Zangwill appare tutt'altro che cristallino. Ma ce dell'altro. Il presidente mi ha confidato che la signora Farjeon, all'insaputa del marito, sei mesi fa ha contratto una polizza sulla vita del conte".

"Lei forse pensa che la contessa...".

Holmes non mi fece terminare.

"Non ho inteso avanzare sospetti - affermò, - anche se la sottoscrizione di quella polizza può suonare come un fatto un po' sinistro. E devo ammettere che, stando così le cose, anche il litigio di questi giorni contribuisce ad alimentare qualche sospetto nei confronti della bella signora di Hampstead. Però non possiamo dimenticarci delle stranezze avvenute negli uffici dei Lloyd's né le dimissioni di Zangwill né il comportamento, un po' strano, per quanto plausibile, del conte Farjeon. D'altra parte, non possiamo cercare di restringere il campo delle ipotesi chiedendo che il conte non partecipi alla corsa. I Lloyd's ritengono la sua presenza alla gara ad alto rischio ma, allo stesso tempo, irrinunciabile. Lei conosce meglio di me il significato politico attribuito a questa eccentrica manifestazione indetta per celebrare l'abolizione definitiva dei Locomotive Acts. Se un rappresentante dei Lloyd's non vi prendesse parte ne potrebbe nascere un incidente diplomatico con alcuni dei magnati, che invece faranno parte della partita, e con lo stesso Governo. No, dovremo cercare di tirare le fila della questione da soli. Come vi dicevo, le mie indagini non hanno chiarito granché. Abbiamo in mano soltanto i fatti che le ho esposto, anche se temo che dietro questa storia ci sia qualcosa di assolutamente imprevedibile. Penso che sarà un caso molto interessante, Watson, e dobbiamo essere pronti ad intervenire al momento giusto".

"Cioè durante la corsa Londra-Brighton?", chiesi.

"Durante... o prima... o dopo la corsa, amico mio. L'importante, a meno che non stiamo prendendo un granchio colossale, è passare all'azione quando saremo sicuri del fatto nostro".

Avrei voluto avere altre informazioni, ma Holmes doveva aver già considerato chiusa la discussione, perché si alzò di scatto dalla sedia, indossò di nuovo la pesante mantella di tweed e il cappello ed uscì.

La sera prima del gran giorno le cose precipitarono. Stavamo per ritirarci nelle nostre camere, quando la signora Hudson ci recapitò una lettera. Sulla busta si leggeva chiaramente l'intestazione dei Lloyd's e sotto, in carattere più piccolo, la dizione: "Il Presidente". Holmes mi invitò a leggerla. Il messaggio era secco e, per questo, estremamente drammatico:

"Signor Holmes,
tre diamanti della Corona sono scomparsi dalla cassaforte. La prego di aiutarci"
.

Afferrata la lettera, il mio amico la infilò in una tasca della giacca e precipitandosi fuori della stanza sibilò:

"Non aspetti il mio ritorno, Watson. Vada a riposare, perché temo che domani sarà una giornata molto faticosa".

Per quanto fossi agitato, dormii profondamente e quando quel sabato Holmes mi svegliò alle sei del mattino faticai ad aprire gli occhi.

"Si alzi, presto. Resteremo intrappolati in quell'assurdo mostro a motore chissà per quante ore. E' meglio concederci una buona colazione e una bella fumata prima di metterci in azione".

Lo raggiunsi in salotto un quarto d'ora dopo. Il mio amico era già seduto vicino al camino, intento a caricare la pipa con il tabacco scuro che conservava, non so se per snobismo o per cialtroneria, in una vecchia babbuccia persiana. Nel suo piatto, la fetta di pane imburrato, appena addentata su un lato, dimostrava che la tensione per l'indagine era già al suo culmine impedendogli di mangiare. Non lo disturbai, ben sapendo che in quei momenti si doveva consentire alle sue incredibili facoltà mentali di seguire il loro lungo percorso fatto di ragionamenti e di incastri senza interruzione alcuna.

Durante il nostro viaggio in carrozza verso Hyde Park Corner, finalmente, Holmes decise di interrompere il suo mutismo:

"E' un rompicapo, Watson, ma dobbiamo riuscire a risolverlo".

Lo guardai con aria interrogativa.

"Non abbiamo molto tempo per parlare - mi disse, - dunque le spiegherò la vicenda nelle sue linee essenziali. Come sa, tre diamanti della Corona sono stati sottratti dalla cassaforte dei Lloyd's. Il furto è avvenuto ieri sera poco dopo le nove. Il guardiano di turno è uscito dal suo sgabuzzino alle nove in punto per il solito giro di controllo negli uffici della compagnia. Mentre saliva al primo piano è stato colpito alla testa ed è caduto svenuto. Quando si è svegliato ha scoperto di avere le mani legate dietro la schiena, ma chi lo aveva legato doveva aver agito molto in fretta, perché il nodo ha ceduto con poco sforzo. Il guardiano è poi corso immediatamente nella stanza della cassaforte, ma ha trovato che tutto era a posto. Comunque, non ha voluto sottovalutare l'accaduto. Ha svegliato il compagno di turno che ancora dormiva nello sgabuzzino e lo ha spedito ad avvertire il presidente. Mezz'ora dopo, il presidente dei Lloyd's è giunto nella stanza della cassaforte per controllarne il contenuto e purtroppo ha dovuto verificare la scomparsa di tre diamanti della Corona".

"E quindi le è stato inviato il messaggio", intervenni.

"Sì, è così. Sono giunto ai Lloyd's quasi alle undici. Non ho trovato indizi o tracce significativi. Non ci sono impronte né segni di scasso nemmeno sul portone d'ingresso, il che ci obbliga a pensare che chi ha agito disponesse delle chiavi per entrare oltre che di quelle della cassaforte...".

"Il conte Farjeon..."

Holmes mi zittì prima che potessi concludere:

"Il conte - sibilò - si trovava nella sua stanza d'albergo e Zangwill - aggiunse anticipando la nuova illazione che stavo per esternare - non si è mosso, così assicura la portinaia, dal proprio appartamento di Board Street. E questo è tutto. E' un bel mistero, mi creda. E oggi dovremo assolutamente risolverlo. Scotland Yard è all'oscuro della faccenda e i Lloyd's si affidano alle nostre capacità e alla nostra discrezione per recuperare i diamanti".

Holmes accese una sigaretta e sprofondò di nuovo nel più assoluto silenzio. Io mi sentivo a disagio e non sapevo come distrarmi. Il sole, ancora pallido, non forniva luce a sufficienza per individuare punti di osservazione fuori della carrozza. E poi, non nascondo che, abituato ai deserti vialetti di ghiaia del parco di Lord Ridley, una certa paura per il fatto che avrei dovuto guidare un'automobile lungo le strade di Londra e poi lungo un percorso sconosciuto fino a Brighton cominciava a rendermi piuttosto nervoso. Per fortuna, proprio quando stavo per esplodere, la carrozza si fermò per farci scendere e l'inaspettata animazione nella quale ci trovammo proiettati in quell'angolo di Hyde Park fu, per me, la migliore medicina che potessi chiedere. La lunga teoria di auto parcheggiate, con la vernice fiammante e le cromature luccicanti e intorno alle quali si assiepava un numero imprecisato di uomini in tuta, indaffarati e sporchi di grasso e puzzolenti di benzina, mi dettero come un senso di ebbrezza. E la folla vociante di spettatori, già numerosa nonostante mancasse ancora un po' di tempo alla partenza, finì col completare l'opera: il mio nervosismo si era dissolto come d'incanto. Rimasi incantato ad osservare tutto quel via vai di gente e il lavorio dei meccanici per cinque minuti buoni e quando mi voltai per richiamare l'attenzione di Holmes sulla buffa auto progettata e costruita da Knight, del quale tanto si era parlato sulle cronache dei giornali, egli non era più accanto a me.

Lo vidi, dopo qualche istante, in una zona piuttosto isolata che confabulava con uno di quei sudici marmocchi che ogni tanto ingaggiava come aiutanti nel corso delle sue indagini. Mi affrettai per raggiungerlo, ma quando fui a pochi passi, il ragazzino aveva appena terminato di parlargli e, intascata la generosa mancia di Holmes, se ne andò via di corsa.

"Qualcosa pare muoversi, Watson", mi disse in tono canzonatorio.

"Ne sono felice - replicai, - ma che intendete dire?".

"Oh, direi che è ancora presto per fare ipotesi o tracciare delle conclusioni. Diciamo che probabilmente qualche altro anello si è aggiunto alla nostra incompleta catena. Ieri sera Zangwill ha spedito i suoi bagagli a Dover e poi - aggiunse facendomi segno di non interromperlo, - sembra che il conte Farjeon frequenti in gran segreto un appartamento in un cadente palazzotto di Soho...Ma ecco il conte in carne ed ossa".

Mi voltai e dopo pochi secondi fummo raggiunti da un uomo di circa quarant'anni, alto e muscoloso e molto elegante a dispetto del luogo comune secondo il quale i completi da caccia sarebbero, anche se di tessuto ricercato, abiti di una bruttezza tale da dover evitare di indossarli in città.

"Buongiorno, se non sbaglio lei è il conte Farjeon - sorrise Holmes. - Ho visto che i giornali lo indicano tra i favoriti della corsa".

L'uomo voltò la sua testa coronata da una chioma riccia di capelli biondi verso di noi e fissandoci con i suoi intensi occhi azzurri disse:

"Vedo che ha visto la mia fotografia pubblicata sul Chronical. Ne sono onorato, signor...".

"Holmes, Sherlock Holmes. E questo - disse indicandomi - è il mio pilota, il dottor John Watson".

"Dunque, siete anche voi della partita. Ne sono felice - replicò il conte. - Sarà un piacere confrontarmi con un personaggio noto come lei".

"La popolarità va e viene - sospirò il mio amico - e non c'è dubbio che se ne potrebbe guadagnarne molta vincendo la gara di oggi. Purtroppo, mi dicono che lei sia un pilota molto abile e veloce".

"Così dicono, e non le nascondo che ne sono compiaciuto".

"L'avverto che non intendiamo rassegnarci a perdere".

"Sono felice di potermi misurare con lei, signor Holmes e credo che lo sarà anche il mio amico e compagno di viaggio, il signor Leskin", replicò il conte presentandoci l'uomo alto e magro, anch'egli vestito con un elegante completo da campagna, che ci aveva appena raggiunti..

"Sarà una bella sfida. - commentò Holmes. - Bene, buona fortuna e arrivederci a Brighton".

"Sì, a Brighton", gli fece eco il conte Farjeon allontanandosi con il suo compagno.

Prima di incamminarci nella stessa direzione, li guardammo raggiungere la zona dove le automobili sostavano in attesa della partenza. La nostra auto, un'elegante Panhard 1895, era parcheggiata a fianco della Knight che poco prima aveva attirato la mia attenzione. Poco distante, a fianco di un'altra Panhard, ora il conte Farjeon dava delle indicazioni ad un meccanico che stava armeggiando all'interno della vettura. Scene più o meno simili si ripetevano intorno ad ognuna delle 33 vetture che si sarebbero sfidate lungo la strada per Brighton. Pareva d'essere nel mezzo di un caravanserraglio in quei momenti febbrili che precedono la partenza di una carovana numerosa e vociante. Holmes osservava tutto con aria di sufficienza. D'un tratto mi indicò una scintillante Peugeot Type 9 sulla quale due meccanici lavoravano alacremente sotto l'occhio vigile di un uomo attempato, dalle guance rosse e paffute e il ventre molto pronunciato.

"Bene, bene; ecco il nostro Zangwill - disse. - Ora la compagnia è al completo".

"Direi che manchi l'affascinante contessa Farjeon".

"Oh, non credo che la signora voglia interferire col lavoro del marito".

Lo guardai stupito.

"Mio caro Watson - riprese anticipando la mia domanda, - lei dimentica che il conte, sebbene appassionato di automobili, è qui per rappresentare in forma ufficiale i Lloyd's...".

Il rumoreggiare gioioso della folla, assai più numerosa di quando eravamo arrivati, interruppe la nostra conversazione. Il momento della partenza era vicino. Mentre indossavamo lo scomodo cappello di cuoio con il paraorecchie e gli occhialoni che dovevano proteggerci gli occhi dalla polvere e dall'aria, i meccanici cominciarono ad avviare i motori delle automobili. Al vocìo della gente si sovrappose, in un istante, un concerto assordante di rumori. E il borbottio metallico dei motori e il cigolio di cui gemevano le carrozzerie traballanti, aggiungendosi all'odore acuto e penetrante della benzina che saturò l'aria, avevano un effetto quasi stordente.

Un istante dopo, seduti sulla nostra Panhard, tremavamo come due naufraghi appena recuperati dalle fredde acque del Mare del Nord. Strinsi le mani alle leve dello sterzo e cercai di ripassare mentalmente tutte le manovre che avrei dovuto eseguire per far viaggiare, senza troppi sobbalzi e senza causare incidenti, la nostra vettura. D'improvviso, gli addetti dell'organizzazione ci indicarono di raggiungere la linea della partenza. Ingranai la marcia e avanzammo, in fila indiana, fino all'Hyde Park Corner. Lì vicino, la statua equestre di Wellington ci osservava con severità. Ad un tratto, sulla linea della partenza un elegante uomo in redingote e cilindro nero, che solo dalla lettura del Times del giorno successivo seppi essere Lord Winchilsea, distrusse una bandiera rossa. Era il segnale del via. Il rombo dei motori diventò assordante e la nuvola di fumo e polvere che si sollevò quando le auto scattarono in avanti quasi mi fecero rimpiangere le umidi e tristi nebbie londinesi. Avevamo davanti a noi 54 miglia di strada, cioè più di tre ore di scosse e sobbalzi, e la necessità di non perdere di vista il conte Farjeon e l'ex direttore Zangwill che, a meno di sorpassi avvenuti negli attimi concitati della partenza, dovevano ancora trovarsi dietro di noi.

Attraversammo Grosvenor Square e dopo aver percorso Victoria Street superammo anche Parliament Square e il Westminster Bridge. Ben presto, ci avvicinammo alla periferia sud di Londra. Il gruppo di auto che ci precedeva non era più alla portata dei nostri sguardi. Trattenevo il piede sull'acceleratore, perché Holmes mi aveva fatto cenno di moderare la velocità. Non potevamo parlarci, a causa degli scoppiettii e dello sferragliare della nostra Panhard.

Superato l'abitato di Thorton Heat, mentre sobbalzavamo su una strada resa sconnessa dalle recenti piogge e costeggiata da alberi di alto fusto, il conte Farjeon ci superò di gran carriera inviandoci un gesto di saluto. Holmes, allora, mi invitò ad accelerare. Ma non accadde null'altro fin dopo Croydon. Avevamo imboccato la strada per Purley ed ad un certo punto, subito dopo aver superato una curva che piegava a destra, l'auto di Zangwill ci affiancò sollevando una nuvola di polvere. Restammo affiancati per quasi mezzo miglio. Poi, all'improvviso, la macchina di Zangwill ebbe uno scarto verso destra puntando diritta contro di noi. Colto dal panico, anch'io azionai violentemente le leve dello sterzo. Il risultato fu che le ruote della nostra auto finirono sul ciglio erboso della strada. La macchina sbandò e ancora oggi non so come riuscii a controllarla e a fermarla prima di finire contro il fusto di una gigantesca quercia.

Holmes ed io ci demmo uno sguardo d'intesa. Eravamo spaventati, ma entrambi tutti d'un pezzo. In quel momento non potei sapere quali pensieri attraversassero la sua mente né cosa pensasse di quella vile manovra di Zangwill. Io avevo una mia teoria ben precisa: l'ex direttore della tesoreria dei Lloyd's aveva attentato alla nostra vita. Holmes era infuriato, ma non pronunciò parola. Mentre due bolidi sfrecciarono sulla strada, scese a terra invitandomi a fare altrettanto. Per fortuna lo strato fangoso era appena superficiale e riportare l'auto sulla strada fu, tutto sommato, semplice.

Ci rimettemmo in marcia pochi minuti dopo. Ora spingevo il piede sull'acceleratore con più decisione, fino a sfiorare le 14 miglia orarie. Il tempo si manteneva stabile, ma la strada nascondeva insidie ad ogni metro. I giorni precedenti alla corsa erano stati tra i più piovosi che io ricordi. La violenza della pioggia aveva scavato sul manto stradale una quantità di buche incalcolabile e in molti tratti le ruote slittavano su una vischiosa patina di fango. In quelle condizioni, guidare era una vera impresa, ma Holmes mi sollecitava a non mollare. Avevamo perso di vista sia il conte Farjeon che Zangwill e il mio amico desiderava raggiungerli in fretta.

Superammo due o tre concorrenti tra Purley e Redhill. Lungo quello stesso tratto quattro auto avevano invece terminato la loro corsa. Una, con la parte anteriore avvolta in una nuvola di fumo e vapore, era stata chiaramente tradita dal motore; le altre, con le ruote affondate nel terreno o finite contro il tronco di un albero, erano invece rimaste vittima del fango. Finalmente, subito dopo l'abitato di Handcross Hill raggiungemmo e superammo l'auto di Zangwill. In quel lungo tratto di strada sconnessa altri concorrenti avevano dovuto gettare la spugna, chi tradito da noie meccaniche, chi sconfitto dal fango e dagli avvallamenti della strada.

Superato Zangwill, continuai a premere sull'acceleratore con l'unico scopo di tornare in vista del conte Farjeon. Avevamo quasi raggiunto Whitemans Green quando riuscimmo ad individuare la sagoma della sua Panhard. La perdemmo di vista per un momento nel percorrere una stretta curva a sinistra, ma appena la strada tornò diritta Farjeon fu di nuovo visibile. Improvvisamente, in prossimità di un'altra curva, l'auto di Zangwill, sorpassandoci, tornò nuovamente a sfiorarci. Questa volta, per fortuna, riuscii in qualche modo a controllare la vettura. Repressi a stento il moto di collera che mi fece pulsare le tempie ed irrigidire tutti i muscoli del corpo. Accanto a me, invece, il mio amico non dette segno di reazione. Manteneva lo sguardo fisso davanti a sé, come se avesse individuato qualcosa che non doveva assolutamente sfuggire dal suo controllo.

Giunti in prossimità di Cuckfield, in un tratto di strada costeggiato da olmi secolari su entrambi i lati, una nuvola di polvere ci si parò davanti costringendomi a rallentare. Fu allora che udimmo delle grida di aiuto. Il mio amico mi invitò a fermarmi, poi balzò a terra con uno di quei movimenti agili e concitati, insospettabili per chi conosceva bene le sue abitudini quasi apatiche e la sua contrarietà all'esercizio fisico fine a se stesso e che però gli erano tipici quando, nel corso di un'indagine, lottava contro il tempo o temeva l'imminenza di qualcosa di grave. Lo seguii con il cuore in gola, ma fortunatamente la nostra preoccupazione si rivelò immotivata. La nuvola di polvere, dissolvendosi lentamente, svelò l'arcano della vicenda: la Panhard del conte Farjeon era tristemente ferma, con le ruote anteriori intrappolate nel fango che resisteva ai lati della strada. Il conte e il suo compagno di viaggio, lividi di rabbia, stavano spingendo la vettura nel tentativo, del tutto inutile, di riportarla in carreggiata.

"Vedo che vi trovate in difficoltà e saremmo lieti di esservi d'aiuto", disse in tono gentile il mio amico.

"Vi ringrazio, è molto sportivo da parte vostra", replicò il conte. Poi, rabbiosamente, aggiunse: "Altrettanto non posso dire di Zangwill".

Gli occhi di Holmes ebbero un lampo.

"Che cosa intendete dire?".

"E' stata la sua manovra di sorpasso a costringerci ad uscire di strada - rispose il conte. - Non gliene voglio per questo. Zangwill è un guidatore inesperto e le manovre di sorpasso richiedono una grande pratica di guida. Ma non si è un gentleman se non ci si preoccupa di rimediare, in qualche modo, ai danni provocati da un nostro comportamento".

Sherlock Holmes rimase un momento pensieroso guardandosi attentamente intorno, poi ci fece cenno di cominciare a spingere e finalmente, con non poco sforzo, riuscimmo a riportare la Panhard sulla strada. Il compagno di Farjeon azionò con forza la manovella anteriore e il borbottio del motore ci assicurò che tutto era in ordine. Il conte ci ringraziò nuovamente e, tornato alla guida, ripartì verso Brighton.

"Qualcosa non quadra, Watson, - commentò Holmes osservando la Panhard del conte allontanarsi. - Ma non perdiamo tempo, avanti, rimettiamoci in marcia".

Stavamo correndo al massimo della velocità consentita ormai da quasi venti minuti, quando un rumore sordo, seguito da un sibilo, e poi dal fragore di vetri infranti ci riscosse dai nostri pensieri. Qualcuno ci aveva sparato, non c'era dubbio, e solo la cattiva mira del tiratore, o forse la nostra buona stella, aveva fatto sì che la pallottola indirizzata ad Holmes mancasse il suo bersaglio facendo saltare in aria il fanale destro della nostra Panhard. Arrestai la vettura a circa trenta metri da una curva che piegava a sinistra e scesi a terra impugnando la pistola. Il cuore mi batteva all'impazzata quando raggiunsi il mio amico, che aveva già trovato riparo dietro ad uno degli alberi che costeggiavano la strada.

"Ci hanno sparato da laggiù", disse indicandomi un piccolo boschetto di abeti che sorgeva proprio davanti alla curva.

Dal nostro nascondiglio continuammo ad osservare l'abetaia per quasi un minuto, ma il bosco rimase silenzioso e inanimato. Gli unici segni di vita giunsero dalla strada. Un'auto passò scoppiettando e cigolando davanti a noi e poi si perse oltre la curva.

"Rimanga qui, Watson - disse il mio amico. - Farò un sopralluogo tra quegli abeti prima di rimetterci in viaggio. Intanto, metta in moto la macchina e si avvicini alla curva così da affrettare i tempi della partenza".

Holmes si allontanò di corsa e in pochi secondi era già scomparso tra gli alberi. Tornò dopo qualche minuto. Camminava speditamente e sedendosi sul sedile della Panhard mi mostrò, con aria trionfale, un piccolo lembo di stoffa marrone. Avrei giurato che fosse dello stesso tipo del pesante soprabito di Zangwill, ma non potei chiedere delucidazioni, perché Holmes mi invitò a ripartire il più in fretta possibile.

Percorremmo il resto della strada senza mai rallentare e senza più fare incontri, tranne per qualche altra vettura abbandonata sul lato della strada a causa di guasti o di incidenti. Giungemmo alla periferia di Brighton poco dopo le 10,40 del mattino. Man mano che ci avvicinavamo al traguardo ai lati della strada il numero degli spettatori, la gran parte dei quali agitava bandierine e fazzoletti in segno di saluto, aumentava a vista d'occhio. In Madeira Drive, dove tagliammo il traguardo procedendo a passo d'uomo, la folla era addirittura straripante.

Mentre guidavo, tra mille cautele, verso l'area di raduno dei pochi partecipanti che erano giunti alla fine della corsa, Holmes balzò a terra e raggiunse uno degli agenti di servizio sulla linea del traguardo. Lo guardavo con un occhio solo, mentre con l'altro seguivo la concitata discussione tra il conte Farjeon e il suo ex sottoposto Zangwill circa la pericolosa manovra di sorpasso che aveva provocato l'incidente nei pressi di Cuckfield. Quando il mio amico mi raggiunse qualche istante dopo, il battibecco era terminato e ognuno dei protagonisti era ora indaffarato intorno alla propria automobile. D'un tratto, Holmes si nascose dietro di me:

"Non si muova, Watson - mi sussurrò all'orecchio. - Resti immobile e mi copra".

Ero disorientato, ma non replicai. Stavo guardando il conte, ancora intento a sistemare alcuni fagotti all'interno della vettura, quando una donna affascinante, con i capelli di un rosso che i cultori dell'arte chiamano Tiziano, gli occhi neri e vivaci, e vestita con un abito verde sul quale portava una mantella nera, gli si avvicinò chiamandolo per nome. Farjeon si voltò e restò un momento in silenzio. Poi disse:

"Deve scusarmi, signora; lei conosce il mio nome, ma io non posso dire altrettanto".

La donna sbiancò, mentre i tratti del volto, un ovale carico di dolcezza, le si fecero rigidi come pietra.

"Credo di poter esserle d'aiuto io", esclamò con una punta di sarcasmo Sherlock Holmes abbandonando il suo nascondiglio.

"Lei?", domandò sorpresa la donna.

"Sì, signora, credo di essere in grado di chiarire molte cose", replicò freddamente il mio amico. E accesa una sigaretta continuò: "La sua presenza qui era del tutto inattesa, ma come vedo è assai utile per liquidare più velocemente di quanto sperassi questa spiacevole faccenda. Dunque, contessa Farjeon...".

A quelle parole il conte si voltò di scatto accennando un passo di corsa, ma due agenti gli si pararono davanti bloccandogli la strada. Nello stesso momento, altri due agenti avevano bloccato il compagno del conte, il signor Leskin. Zangwill, sorpreso da quell'improvviso tumulto, si avvicinò verso di noi, probabilmente spinto dalla curiosità.

"Bene, - riprese Holmes sbuffando una nuvola di fumo - adesso che la situazione è sotto controllo posso continuare. Dunque, le dicevo, contessa Farjeon, che il suo arrivo è stato provvidenziale. Sono certo di non sbagliare nel dire che la persona che lei ha avvicinato credendo che si trattasse di suo marito è, in realtà, il suo fratello gemello. E sono certo che è lei, signor August Farjeon, - aggiunse puntandogli contro un dito accusatore - il responsabile della scomparsa del conte Farjeon e del furto avvenuto ai Lloyd's la scorsa notte".

"Siete semplicemente in errore", replicò l'accusato.

"Dimostrerò senz'altro il contrario, signor Farjeon - lo snobbò il mio amico. Poi, dopo una pausa, cominciò a spiegare: - Questa mattina la matassa era ancora ingarbugliata. Per quanto ne sapevo sia il conte Farjeon che Zangwill avevano le stesse probabilità di essere gli autori del furto e... No, la prego, signor Zangwill, non mi interrompa. Se ascolterà la ricostruzione dei fatti converrà senz'altro con me che la si poteva considerare tra i sospetti. Dunque, dicevo, entrambi potevano essere gli autori del furto. Farjeon, perché custodiva la chiave della cassaforte e poteva tranquillamente aprirla in qualsiasi momento. Lei, signor Zangwill, perché ha avuto più volte la possibilità di impossessarsi della chiave e farne un calco dal quale ricavarne una copia. Nemmeno il movente era un grosso problema. Il conte poteva avere l'esigenza di fare un regalo principesco. L'ultima sua amante, l'affascinante baronessa di Toledo, ha gusti difficili, così almeno si è letto sui giornali. Ma egli, per quanto facoltoso, avendo di recente impiegato una grossa cifra in alcuni titoli sudafricani, non avrebbe potuto provvedere attingendo al suo conto in banca. E che cosa ci sarebbe stato di più principesco che regalarle tre diamanti della Corona? Certo, qualcosa non quadrava. I movimenti nella zona di Soho che mi erano stati segnalati mal si accordavano allo status sociale di un nobile gentiluomo. Ed era improbabile anche che una delle sue amanti alloggiasse in uno squallido appartamento di quel quartiere. E lei, Zangwill, in quarant'anni di servizio ha visto circolare tali quantità di soldi e di ricchezze che, giunto alle soglie delle pensione e in procinto di partire per l'America, poteva aver pensato di rifarsi, in una volta sola, dei dignitosi ma pur sempre miseri stipendi che non le hanno permesso di mettere da parte un granché. La visita negli uffici dei Lloyd's la sera dopo le sue dimissioni, mi creda, appariva una coincidenza molto sospetta. Ma queste erano solo supposizioni e a me servivano invece delle prove. Così, per cercare di chiarire alcuni punti ho chiesto ai miei piccoli Irregolari, che vi tenevano d'occhio da qualche giorno, di reperire quante più notizie sul vostro conto. E il telegramma che ho ricevuto da Londra appena abbiamo tagliato il traguardo è stato illuminante. I miei piccoli monelli, tra le altre cose, hanno scoperto che il conte Farjeon ha un fratello gemello, che quindici anni fa è stato diseredato dal padre a causa del suo comportamento troppo libertino e dei suoi troppi debiti di gioco che stavano infangando il nome della famiglia in modo irrimediabile. Lei scomparve dall'Inghilterra, ma in tutti questi anni deve avere meditato il modo di vendicarsi di suo fratello e il furto ai Lloyd's era la sua idea geniale: arraffare per sé un buon bottino e far ricadere la colpa sull'odiato fratello".

"Sono soltanto delle teorie", ridacchiò Farjeon.

"Non esattamente - rispose Holmes, - se consideriamo la pecca di non aver riconosciuto "sua" moglie e, soprattutto, il maldestro tentativo di uccidermi che ha messo in atto".

"Mi scusi, signor Holmes, - intervenne la contessa anticipandomi - ma la situazione mi è tutt'altro che chiara".

"Alcuni punti non sono ancora chiari nemmeno a me stesso - prese a spiegare Holmes con tranquillità. - Fino al momento dell'incidente di Cuckfield, quando Zangwill ha spinto fuori strada il finto conte e Leskin e Watson ed io ci siamo fermati per aiutarli a liberare le ruote della vettura dal fango, l'ex direttore della tesoreria dei Lloyd's aveva fatto di tutto per attirarsi addosso le mie particolari attenzioni. La stessa manovra spericolata l'aveva compiuta, per ben due volte, anche nei nostri confronti. Pensavo che volesse liberarsi degli unici testimoni che potevano accusarlo e farlo condannare, ma mi sbagliavo. Ed è dopo l'incidente di Cuckfield che mi sono fatto un primo quadro abbastanza preciso della situazione. Vedendo il signor Leskin adoperarsi per liberare la vettura dal fango ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad uomo che, per quanto elegantemente vestito, non appartenesse allo stesso mondo del conte. Si muoveva con fare brusco e con movimenti che ho notato solo tra gli scaricatori di porto. Quando ci siamo rimessi in viaggio ho riflettuto a lungo su questo, ma per quanto mi sia sforzato di cercare nella mia memoria, non sono riuscito ad associare il cognome Leskin a quello di nessuna famiglia in vista della società inglese. E questo suonava abbastanza strano, se consideriamo che il conte Farjeon questa mattina ha sottolineato di essere suo buon amico. I nobili, di solito, non hanno buoni amici tra la plebaglia. Il mistero l'ho risolto solo durante il sopralluogo nel bosco dal quale è partito lo sparo contro la nostra automobile. Sul terreno ho rinvenuto alcune impronte di scarpa a punta quadrata che erano del tutto uguali a quelle che Leskin ha lasciato sul fango di Cuckfield. Lo posso dire con certezza perché sulla suola della scarpa destra dev'esserci un rattoppo non proprio ortodosso che ha disegnato sul terreno un cerchio un po' sbilenco".

Uno dei poliziotti che teneva sotto controllo Leskin gli sollevò il piede destro.

"E' proprio come dice lei", gridò soddisfatto all'indirizzo di Holmes.

"Di fronte a quelle impronte ho cominciato a pensare e alla fine mi sono ricordato, rammentando le cronache dei giornali sui furti avvenuti di recente sul continente, che la polizia viennese sospettava che uno dei componenti della banda fosse un certo Birkin, autore di alcuni furti sensazionali nel decennio precedente, evaso di prigione sei mesi fa e con un passato da marinaio su alcune baleniere scandinave".

"E io cosa c'entro? Io sono innocente", gridò in tono di sfida Farjeon.

"No, tutt'altro - ringhiò Holmes. - Sono convinto che nella sua sete di vendetta verso il fratello che aveva avuto in eredità le immense ricchezze di famiglia lei abbia meditato la vendetta per tutti questi lunghi anni. Non so come e non so dove, ma quando ha incontrato Birkin, che nel frattempo aveva cambiato nome in Leskin, nella sua mente ha cominciato a balenare l'idea che il momento giusto fosse arrivato. Vi siete messi in società, avete messo a segno dei colpi e quando lei si è sentito sicuro di poter regolare i conti con suo fratello ha pianificato un complesso piano che solo per puro caso le si è infranto tra le mani".

"Sono solo frottole", gridò di nuovo Farjeon.

"Io credo che le cose siano andate così - lo sfidò Holmes, - e comunque presto un telegramma da Londra ci chiarirà molte cose. Ho fatto telegrafare all'ispettore Lestrade di Scotland Yard. Credo che il sopralluogo nell'abitazione di Soho metterà la parola fine a tutta questa vicenda".

"August, ci hanno scoperti, è inutile", disse d'improvviso Birkin.

"Sta' zitto, non hanno prove", lo aggredì Farjeon.

"Le avremo - sogghignò Holmes. - E comunque ne abbiamo già a sufficienza. Il vostro maldestro tentativo di uccidermi, come ho già detto, vi ha tradito. Nel bosco non ho trovato solo le impronte di Birkin, ma, come potete vedere, anche questo - aggiunse mostrandoci un pezzetto di stoffa marrone. Potrete notare che i pantaloni del signor Leskin sono strappati sulla gamba sinistra. Il lembo di stoffa che manca è questo".

"Dunque, il suo uomo è Leskin. Io sono innocente", insistette August Farjeon.

"No, lei è la mente di questo piano criminale. Se nel bosco non ho trovato traccia del suo passaggio è perché lei attendeva il suo complice alla guida della vettura. Le impronte di Leskin partono dalla strada alle spalle del bosco e poi vi fanno ritorno. E sempre sulla strada, nella zona dove lei aveva parcheggiato la macchina, ci sono anche le sue impronte, signor Farjeon. Comunque, se gli agenti vorranno consegnarmi il contenuto delle vostre tasche, credo che potremo mettere la parola fine a questa storia".

Uno degli agenti, dopo aver frugato nelle tasche della giacca di August Farjeon, consegnò un portafoglio di marocchino rosso a Sherlock Holmes. Egli lo aprì, ne estrasse una fotografia e una piccola chiave.

"E' fin troppo chiaro - disse con Holmes con enfasi - che questo è il portafoglio che lei ha sottratto a suo fratello, il conte Farjeon"

"Sì, è quello di mio marito", balbettò la contessa.

"E questa - ripresa Holmes - è la chiave della cassaforte dei Lloyd's. Il sopralluogo che faremo questo pomeriggio lo dimostrerà con chiarezza. La fotografia, invece, - aggiunse in tono ironico - è ciò che le ha fatto compiere l'ultimo passo falso. La bella signora che vi è ritratta è una delle tante amanti del conte, non certo, come invece lei ha creduto, la moglie. Così, quando la contessa le si è avvicinata e lei ha detto di non conoscerla ha chiuso definitivamente la mia indagine".

"Sì, voleva vendicarmi di mio fratello - sbottò d'un tratto August Farjeon con la voce carica d'odio. - Quel bellimbusto, tutto sorrisetti e falsità non era migliore di me. Era un libertino e un giocatore al pari mio, ma la fortuna lo ha sempre assistito e con le sue false moine ha convinto nostro padre che lui era serio e assennato e io, invece, la pecora nera della famiglia. Quando fui diseredato, sentii il mondo crollarmi addosso, ma giurai che mi sarei vendicato. Non sapevo come, ma quando ho incontrato Birkin ho preso coraggio. Avevo pianificato tutto. Abbiamo rapito mio fratello mentre si recava ai Lloyd's e lo abbiamo rinchiuso nell'appartamento che avevamo affittato a Soho. Poi ho preso il suo posto per evitare che qualcuno avvertisse la polizia. Ho rischiato, perché sapevo che la moglie di mio fratello avrebbe potuto dare l'allarme non vedendolo tornare a casa, ma dovevo tentare. Del resto, se mi fossi presentato ad Hampstead lei mi avrebbe scoperto, mentre così, continuando a recarmi in ufficio, tutto era filato liscio. Ho studiato la situazione ai Lloyd's, per non attirare sospetti su di me, ma quando ho saputo della strana visita che qualche giorno fa ha messo a soqquadro alcuni uffici della compagnia ho temuto che tutto potesse essere compromesso. Per fortuna, non è accaduto nulla e, con la chiave della cassaforte in nostra mano, rubare i diamanti è stato un gioco da ragazzi. Mentre io riposavo in albergo, costruendomi un alibi inattaccabile, Birkin portava a segno il colpo. Lui è un maestro nell'arte del furto. Stasera poi, una volta imbarcatici per la Francia, un nostro complice avrebbe liberato mio fratello che, almeno così pensavo, sarebbe stato accusato del furto. Ma vedo che la sua buona stella - concluse amaramente - ha vegliato su di lui ancora una volta".

"Oltretutto ha commesso l'imperdonabile errore di non disfarsi del portafoglio di suo fratello - sogghignò il mio amico. - L'euforia per aver consumato la vendetta tanto attesa deve averle appannato la mente".

"E i diamanti?", chiesi.

"Basterà che la polizia si prodighi a cercare nella Panhard - mi rispose Holmes. - Noi intanto dobbiamo telegrafare a Lestrade".

Gli agenti, ad un cenno del mio amico, si allontanarono con August Farjeon e con il suo complice. Solo uno di essi rimase a controllare a vista la Panhard in attesa che fosse recuperata la refurtiva. La contessa Farjeon, visibilmente sconvolta, continuava a fissare il mio amico.

"Sono dispiaciuto di tutte le brutte notizie che ha dovuto apprendere - le disse Holmes. - Le consiglierei di ritornare ad Hampstead il prima possibile e di riposare. Credo che nei prossimi giorni avrà molte cose di cui discutere con suo marito".

La donna piegò la testa in segno di assenso e si allontanò verso la linea del traguardo. Là, una giovane ragazza bionda, probabilmente una delle sue cameriere personali, la sostenne prendendola sottobraccio e aiutandola poi a salire su una vettura già pronta a partire.

Quel pomeriggio, un telegramma di Lestrade ci informò che il conte Adrian Lawrence Farjeon, per quanto scosso, era libero ed in buona salute e che il complice di August Farjeon e Birkin era finito in manette.

"Bene, adesso possiamo rimetterci in viaggio per Londra. Ho nostalgia del nostro comodo salotto", disse Holmes accendendosi una sigaretta.

Mi avvicinai alla nostra Panhard, già pronto ad indossare gli occhiali e il berretto di cuoio.

"No, Watson, non viaggeremo in automobile. Non sopporterei ancora tutta quella polvere e quei sobbalzi. E poi, non voglio rompermi l'osso del collo. Tra un quarto d'ora c'è un comodo treno per Victoria Station. Saremo molto più comodi e potremo discorrere in tutta tranquillità".